PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI XXIII - D0VUNQUE A CASA SUA

INTRODUZIONE

Noialtri non abbiamo più di quel Nunzio lì la capacità del distacco. Ebbene, guardatelo: quest'uomo è il solo in tutta Parigi, attorno al quale si possa respirare la pace. Direi: «toccarla, proprio fisicamente». Il giudizio è di Schuman, l'europeista che tanto spesso trovò in Roncalli coraggio e stimolo per la battaglia a favore dell'Europa unita. Il Nunzio sapeva mettere ognuno a proprio agio, ed era a suo agio dovunque, e con chiunque. Dovunque, era a casa propria, pur rispettando, come nessun altro, gli ambienti più disparati. Con chiunque era tra amici, pur conservando il «distacco» necessario che almeno la sua carica gl'imponeva.
Il 15 gennaio del 1953, in un grande salone dell'Eliseo, davanti ad una vasta rappresentanza del governo, ricevette dalle mani del presidente Auriol la berretta cardinalizia, simbolo della nuova dignità che Pio XII gli aveva conferito nel concistoro del 12 precedente. Un antico privilegio accordato ai capi degli Stati cattolici prevedeva che fosse il capo dello Stato ad imporre la berretta ai nuovi cardinali residenti nel paese. Così il nuovo «principe» della Chiesa si chinò, su un prezioso cuscino rosso, sotto gli occhi dei membri del governo, di tre ambasciatori e cinque invitati bergamaschi, da vanti ad un non credente, per il solo fatto che in quel momento il non credente rappresentava il Papa. Più tardi, lo stesso Auriol ricordò con commozione quell'istante: «Non si prosternò davanti a me miscredente, ma davanti a colui che io, per un attimo, rappresentavo: il Sommo Pontefice. Ma quella sera più ancora mi colpì un tratto della sua schietta bontà: mi aveva domandato, come gran favore, di inviare all'Eliseo alcuni signori bergamaschi di distinta, ma modesta origine. Essi ne furono commossi. Piangevano di consolazione. E un socialista può forse restare indifferente? Può restare indifferente di fronte alla nobile semplicità di chi è figlio del lavoro, alle lacrime dei lavoratori?».
Proprio mentre riceveva la dignità più alta della Chiesa prima di quella del papato, l'«Angelino» di Sotto il Monte voleva accanto i testimoni delle sue origini umili e semplici: i figli della sua terra.
Progrediva nella «carriera», e non la rifiutava: si direbbe, dallo spirito del Giornale dell'Anima e dalle lettere di quegli anni, che quasi si divertisse, con una specie di saggezza un po' dolce e un po' amara, a vedere fin dove gli eventi e il «servizio» alla Chiesa lo avrebbero portato. Lui che non aveva mai provato l'ansia per l'«acquisto del cappello», cioè per il cardinalato, lo ricevette con naturalezza, senza mutare in nulla; come, la sera del 28 ottobre 1958, dopo un istante di smarrimento per umiltà, accetterà serenamente anche la più grande dignità della terra, senza una parola eccessiva, senza una sbavatura di retorica.
Giovanni XXIII diviene cardinale

Sapeva, oltre tutto, che a Parigi i «principi» piacciono sempre, e cercava di filtrare anche attraverso la nuova dignità ciò che la Chiesa gli chiedeva di donare agli uomini, dai diplomatici ai lavoratori: il senso di Dio, il primato della verità. Il diario spirituale non porta osservazioni concomitanti alla creazione a cardinale. Solo nel maggio del 1953, durante un ritiro nella villa del seminario di Fietta, osserva: «La mia confusione mi induce a sentimenti di umiltà e di abbandono nel Signore. È lui che ha veramente fatto tutto, e ha fatto senza di me, che per nulla avrei potuto immaginare o aspirare a tanto. Un motivo di gioia interiore è che il tenermi umile e dimesso non mi consta gran fatica e risponde al mio temperamento nativo. Invanirmi o inorgoglirmi di che cosa, Signore mio?». E più avanti, ancora il senso della vecchiaia e l'idea della morte: «Inizio il mio ministero diretto in una età - anni settantadue, - quando altri lo finisce. Mi trovo dunque sulla soglia dell'eternità... Per i pochi anni che mi restano da vivere, voglio essere un santo pastore nella pienezza del termine... La mia giornata deve essere sempre in preghiera; la preghiera è il mio respiro».
Erano bastati pochi mesi di soggiorno a Parigi per convincere tanto gli uomini politici, gl'intellettuali e il popolo francese, come gli informatissimi osservatori vaticani, che quel Nunzio era soprattutto un pastore, e che in lui anche la più guardinga e sottile prudenza diplomatica non perdeva mai il calore dell'amicizia e della paternità. Ed è significativo che questo fosse intuito soprattutto dai non credenti, da vecchi laicisti incalliti, da liberali ostinati, da socialisti di stretta osservanza anticlericale, da radicali senza compromessi. Davanti a Roncalli si trovarono tutti a respirare con naturalezza nella sua umanità e nella sua paternità, senza timore d'essere incoerenti o sconfitti. La sua carica umana rendeva accettabile, sempre, anche il dono di un'amicizia religiosa che non occultava mai se stessa, che non si mimetizzava per nessun calcolo.
Giovanni XXIII al lavoro negli appartamenti vaticani

I RICORDI DEL CAMERIERE

A Parigi volle che la sua «casa» fosse confortevole per tutti il più possibile. Il senso della «casa» lo ha sempre accompagnato, e lo ha portato a crearla adatta a tutti i suoi ospiti, anche nell'accoglienza materiale. Uomo conviviale quanto controllato nei piaceri della tavola, non ignorava l'importanza di un incontro accanto al desco, e come chiunque si scioglie durante una conversazione a tavola. La palazzina in rue presidente Wilson si fece presto più fresca e cordiale, più luminosa e accogliente. Roncalli sapeva per esperienza, dopo vent'anni di vita in Bulgaria e Turchia, che anche un pranzo, per un uomo politico, può rappresentare una fatica immane; e come qualche volta quella fatica doveva pesare su di lui, immaginava che dovesse pesare anche sugli altri; per questo volle che la cornice rigida e distaccata in cui di solito si svolgono i pranzi diplomatici perdesse, in casa sua, ogni carattere di burocraticità. Infatti, chiunque fu alla sua mensa, ricorda come vi si poteva stare senza timori e senza complessi, accanto a uomini di idee diverse, o indirizzo politico contrario, e tuttavia ciascuno perfettamente a proprio agio.
La palazzina della Nunziatura era stata acquistata dal principe di Monaco, e aveva bisogno di restauri e di cure radicali. Roncalli vi si dedicò con entusiasmo, cercando di cancellare tutti i segni della guerra che non l'aveva risparmiata. Un gruppo di operai invase le sale, e il Nunzio fu relegato di stanza in stanza, via via che i lavori di restauro procedevano. Egli diede; l'incarico di seguire i lavori a uno dei suoi segretari. Fabbri, falegnami, muratori, imbianchini, stuccatori, tappezzieri durarono parecchio a rendere nuova la vecchia casa ecclesiastica. E durante il lavoro, tutta quella gente non si faceva scrupolo di chiacchierare, di gridare, magari di bestemmiare se qualche volta le cose non andavano per il verso giusto.
Il Nunzio non perse mai la pazienza. Probabilmente, quel fervore di lavoro gli faceva compagnia, dato che non aveva mai sofferto di nervi. Presto la Nunziatura fu adatta ai ricevimenti d'obbligo per un rappresentante della Santa Sede.
Roncalli non ignorava l'amore dei francesi per la buona tavola, e si sforzò di accontentarli, ogni volta che l'ospitalità lo imponeva. Spesso erano in cinquanta al suo desco, e tutti restavano entusiasti della classe e del buon gusto del Nunzio, anche se si accorgevano poco di quanto sobrio, nel mangiare e nel bere, fosse il loro ospite.
Egli sapeva che, secondo un proverbio famoso «per arrivare al cuore di un francese bisogna prima passare per il suo stomaco». In realtà egli aveva conquistato molto prima il cuore dello stomaco. Tuttavia non ignorava l'umana importanza di un buon pranzo fra amici.
Nessuno però s'ingannerebbe di più di chi credesse Roncalli un buongustaio ostinato. Il suo distacco dai piaceri della cucina è più che eloquentemente documentato dalle annotazioni del diario. Gli piacevano tutte le cose «belle e amabili che Dio ha creato», dalle rose ai libri rari, dagli arazzi antichi ai paesaggi pieni di luce. D'altronde i pranzi di avenue Wilson furono presto famosi a Parigi, ma non precisamente e soltanto per i cibi, bensì per la conversazione, che, in un certo senso, era già, davvero, una conversazione ecumenica.
La sua vita d'ogni giorno era dedicata ai doveri di rappresentanza e di mediazione, ma anche alla «scoperta» di Parigi, una città che egli amava ed ammirava in modo particolare. Gli piacevano le lunghe, calme passeggiate per i lungosenna, con soste interminabili presso le bancarelle dei venditori di libri usati. Su quelle bancarelle scoperse molte volte edizioni rare e libri preziosi. Quasi sempre quei libri finivano in dono agli amici vicini e lontani.
Uno dei testimoni diretti della sua vita quotidiana è colui che gli fu cameriere personale per otto anni, Giulio Venturini, un toscano di Vinci.
«Mi voleva bene - racconta Venturini. Quando, nel 1950, nacque mio figlio, ero in viaggio con lui nel Marocco, ed ebbi per telefono la bella notizia. "Voglio battezzarlo io" - mi disse subito Sua Eccellenza - e mandò subito un telegramma a mia moglie di auguri e benedizioni. Anche in un'altra occasione, questa però dolorosa, mi fu vicino. Era morta mia madre, senza che io avessi potuto accorrere al suo capezzale, e non avrei fatto in tempo neppure per i funerali. Ero in preda alla disperazione, ma monsignor Roncalli trovò, come sempre, le parole più adatte per confortarmi. - "So che cosa provi" - mi disse. - "Anch'io ero lontano quando si spensero i miei genitori. Bisogna rassegnarsi al volere di Dio; ti prometto che la prima volta che andremo in Italia verrò a Vinci con te e pregheremo insieme sulla tomba della tua mamma. Così fece, e celebrò anche una messa nella chiesa di Vinci. Aveva sempre premure, attenzioni squisite per tutti quelli che lo circondavano. Era un piacere vivergli accanto».

DORMIVA COME UN BAMBINO

Esigeva, dovunque fosse, che i «suoi uomini», cioè chi lo serviva, fossero trattati nel migliore dei modi. Se ne preoccupava sempre direttamente, specie durante i viaggi. Nelle feste, poi, come a Natale, voleva che la vigilia tutto il personale della Nunziatura cenasse con lui: Giulio Venturini, Dino, l'autista, Eugéne, il portiere, Domenico, il secondo cameriere, mons. Testa, il segretario, e mons. Forni, attualmente Nunzio in Paraguay. Dopo la messa di mezzanotte riceveva le famiglie del personale, e aveva un dono e una parola cordiale per tutti.
In viaggio semplificava le cose al massimo. Viaggiava con lo spolverino e un berretto a visiera (metteva il cappello appena l'auto si fermava); durante i viaggi voleva sempre alla sua tavola il cameriere e l'autista. Scendeva sempre in alberghi «comodi ma non di lusso». Gli capitava spesso di addormentarsi durante il viaggio. Il sonno è sempre rimasto, per lui, un dono genuino. Secondo Venturini, «aveva la capacità di piombare nel sonno da un momento all'altro, anche per un brevissimo tempo, dieci minuti, un quarto d'ora, come un bambino: e avrebbe voluto che anch'io facessi altrettanto. "Anima benedetta, perché non riposi un po'?" - mi diceva sempre».

Risolveva tutti gli imprevisti con semplicità e spirito di grande adattamento. È ancora Venturini che racconta: «Un giorno ci stavamo recando nel Giura per una cerimonia solenne durante la quale Sua Eccellenza avrebbe indossato la "cappa magna" che si porta soltanto in particolari occasioni. Prima di partire l'avevo sistemata con cura in una cassetta, ma quando fummo a pochi chilometri da Parigi, circa all'altezza di Versailles, dovendo cercare non so che cosa nel portabagagli, lo aprii e mi accorsi che la cappa era scomparsa. Sgomento, cercai e frugai dappertutto. Era la prima volta che mi capitava un fatto del genere, e non riuscivo a convincermi che fosse vero. Ma mentre smaniavo inutilmente; mi giunse la sua voce serena: "Anima benedetta, perché ti spaventi? L'avrai lasciata a Parigi. Torniamo indietro". Mi sembra sempre di vederlo, immerso in preghiera sull'inginocchiatoio della cappella, al secondo piano, o seduto alla scrivania, con le belle dita rotonde che battevano svelte sui tasti. In viaggio portava con sé una grossa agenda dove annotava tutto ciò che faceva durante il giorno. Aggiungeva il proprio commento, le proprie riflessioni... La mattina diceva la messa alle sette e mezzo, ma fino alle undici voleva restare perfettamente digiuno. Avevo rinunciato, dopo i primi tempi, a offrirgli il caffè; sapevo che non l'avrebbe accettato. Era molto severo, in queste cose, molto attaccato alla liturgia, per far onore alla Chiesa».
Venturini è stato anche un testimonio diretto delle gioie spicciole ma intense di Roncalli scopritore di libri o di oggetti rari: «Come era felice quando aveva trovato un libro raro o un quadro antico. Una volta, al mercato delle pulci, scoprì un ritratto bellissimo di Papa Sarto. Un'altra volta gli segnalarono che in rue Bonaparte c'era un prezioso messale con miniature, smarrito da certe suore benedettine. Andò subito per comprarlo; ma era troppo caro. In seguito gli fu regalato da tre bergamaschi che vivono a Parigi. Acquistò invece, benché il prezzo fosse altissimo, due arazzi su disegno di Raffaello che aveva rintracciato presso un antiquario del Faubourg Saint-Honoré. Li individuò subito dallo stemma: "Queste - disse - sono le api d'oro di Papa Barberini". E li mandò in omaggio al Vaticano per completare la serie incompleta (mancavano appunto quei due). Il Vaticano rispose ringraziando e inviando in cambio un altro arazzo, non so di chi, ma non certo di Raffaello. Monsignor Roncalli, però, non ne fu molto contento. Lo mise in sala da pranzo, ma spesso, guardandolo, scuoteva perplesso la testa».
Questo è il profilo «domestico» delineato da un intimo del Nunzio. È sempre stato ai più semplici che egli si è svelato con maggiore naturalezza. Spesso, invece, è rimasto sigillato per chi lo avvicinava con la pretesa d'inquadrarlo di proposito in uno schema prestabilito.
Il commediografo Marcel Achard, sempre in una confidenza ad Anita Pensotti, ha raccontato: «Era molto difficile capire Papa Giovanni. Dietro quell'apparenza da contadino, che traeva facilmente in inganno, si nascondeva l'uomo di grande cultura e di finissimo intuito. Ho avuto occasione d'incontrarlo ventotto volte e d'essere stato invitato a pranzo da lui cinque volte: due a Venezia e tre a Roma. A Parigi, quand'era Nunzio Apostolico, veniva spesso qui, si sedeva su quel divano verde, e parlava. Parlava moltissimo, saltando da un argomento all'altro, ma sapeva perfettamente ciò che voleva dire. Ho avuto modo di conoscere anche Pio XII: era timido, riflessivo, introverso. Papa Giovanni, al contrario, aveva una carica di vitalità così esuberante che conquistava fin dal primo momento». Un giorno Pio XII - dietro suggerimento di qualche francese che non comprendeva quel suo singolare modo di fare il Nunzio, e di qualcuno, forse, della Segreteria di Stato - gli disse sommessamente che forse conveniva ridurre la presenza a cerimonie, non a Parigi, ma nelle varie diocesi. La risposta di Roncalli fu: «Padre santo, una semplice osservazione diviene per me norma di vita. In quanto ai miei movimenti in Francia, io vado solo dove i vescovi insistono per avermi presente. E con la mia presenza, come feci in Oriente per vent'anni, cerco di essere l'occhio, il cuore, la mano soccorrevole del Papa».
Il Nunzio Monsignor Roncalli con Eduard Herriot

«UN VERO PRETE»

Anche dalla testimonianza di Achard risulta quello che rimane il carattere più consolante della personalità di Roncalli. Sono stati anche gli uomini non credenti, gli uomini di cultura, i politici, cioè gli uomini, per molti aspetti, più lontani dal mondo proprio di Roncalli a percepire, in definitiva, il suo carattere essenziale: il calore del suo sacerdozio, il suo essere prete sempre. Achard dice: «Era un vero prete, meraviglioso, dotato d'un senso profondo della Chiesa».
Roncalli non amò la Francia in modo cieco: ammise e accettò; di quel popolo e di quel Paese, anche i difetti. Riconobbe certo, nei suoi lunghi viaggi più pastorali che diplomatici, che era molto vera la definizione che della Francia aveva dato don Godin come di un «Paese di missione». Non sfuggiva certo a uno dotato del senso della storia come il Nunzio il peso dell'eredità che gravava sul Paese. Un peso laicista, che nelle zone più popolari e sprovvedute si andava sempre più accentuando come agnosticismo e distacco da qualsiasi pratica religiosa. La Terza Repubblica era nata laica e protestataria, e aveva inferto alla Chiesa colpi gravissimi, in un certo senso anche più gravi di quelli della rivoluzione francese e di Napoleone. La Quarta Repubblica accettava un Concordato e la presenza di un Nunzio, ma non aveva, per adesso, né il tempo né il desiderio di stabilire in tutti i dettagli un rapporto effettivo con Roma.
Legalmente ed ufficialmente, lo scopo della presenza di Roncalli in Francia era la diplomazia, ed egli lo sapeva, né mai pretese di invadere il campo altrui o di scavalcare le autorità locali, sia quelle religiose che quelle civili. Seppe piuttosto fare dell'ufficio diplomatico l'occasione di un altro tipo di presenza, quella strettamente religiosa, che era poi l'essenza stessa della sua personalità.
Intanto le difficoltà, dopo un anno di soggiorno, crescevano invece di diminuire. Il 21 gennaio 1946 De Gaulle dava le dimissioni da capo del governo provvisorio: si rendeva conto di non poter fare assegnamento su forze adeguate e uomini capaci per condurre a termine un'effettiva riorganizzazione della Francia appena uscita dalla guerra. Le sue dimissioni creavano un vuoto minaccioso e carico di problemi per la giovane Repubblica. De Gaulle aveva dato l'avvio a un processo di maturazione e di aggiornamento politico e sociale su cui non si poteva tornare indietro. Il problema era di trovare energie e idee che concordassero sull'impegno di fondo e riportassero il Paese all'equilibrio necessario. L'impegno più arduo era quello della riconciliazione dei francesi tra loro.
I vescovi avevano impostato la linea comune della loro azione prima di tutto su questo impegno di pace. Per questo - a costo di restare impopolari, e di sentirsi magari ripetere le accuse per cui trenta di essi erano stati minacciati di destituzione, e solo Roncalli li aveva salvati - avevano trovato parole solo di pace anche sulla tomba del vecchio maresciallo Pétain, quando, nel luglio del 1951, era morto in esilio nell'isola di Yeu: «Davanti alla tomba di un vegliardo che ha conosciuto tanta gloria e tanta umiliazione pensiamo che convenga pronunziare solo parole di pace. Poche esistenze furono più tragiche della sua. Tra i capi militari che furono illustri durante la prima guerra mondiale egli resta, nel ricordo dei suoi antichi soldati, uno dei più grandi. Ciò gli valse, nel 1940, il pericoloso onore d'essere portato da un'opinione pubblica in angoscia, malgrado i suoi 84 anni, alla suprema magistratura dello Stato e a dover prendere in faccia all'invasione e all'occupazione nemica le più gravi responsabilità. Da allora, i suoi atti furono accesamente discussi. Egli tuttavia ha sempre protestato la dirittura delle sue intenzioni, dichiarando di rimettersi al giudizio imparziale della storia. È questa, di fatto, che lo giudicherà dopo Dio».
Era in questo clima che le mansioni del Nunzio riflettevano sempre più sia le necessità effettive della Francia che i criteri di scelta e di orientamento ecclesiastico del Vaticano. Un compito immane, che solo una profonda ed inalterabile fede, unita ad un intuito sempre pronto e vivo, avrebbero saputo conciliare.
Già con le nomine a cardinali di Saliège di Tolosa, di Roques di Rennes e di Petit de Julleville di Rouen, il Vaticano aveva placato molte obbiezioni degli estremisti francesi. Questo era accaduto fin dal Natale del 1945, e buona parte del merito andava a Roncalli, che, come Nunzio, aveva il preciso compito di segnalare gli uomini non solo più degni personalmente del grande onore della porpora, ma anche più adatti, sulla inevitabile scacchiera degli umori e delle contrapposizioni politiche, a non dividere piuttosto che unire.
Roncalli non s'illudeva di poter fare miracoli. Sapeva che due grandi prove lo aspettavano ancora: il problema delle scuole private e il problema della nomina dei vescovi nuovi. L'11 marzo 1947 scriveva ad un vescovo amico: «Ho passato anch'io le mie settimane di pena. Ma ora benedico Iddio. La pazienza e la costanza mi furono buone alleate, e la nomina dei vescovi, e di buoni vescovi, ha ripreso il suo corso regolare. Ben 4 furono annunziati: e di altri tre la pubblicazione è imminente. Altri quattro o cinque sono in preparazione. Cosicché in poco più di 24 mesi si ha la nomina di oltre 20 vescovi. Il che non è davvero un piccolo affare per il Nunzio Apostolico. Poi c'è il compito di seguire tutte le variazioni della vita politica, cambio di ministeri, nuova presidenza della Repubblica, e con ciò incontri più o meno solenni ed ufficiali, parole da dire, con lo studio di mettervi sempre qualcosa di cristiano, e insieme di dire il meno possibile».

AGONIA DELLA CHIESA

Il 1947, il 1948, il 1949, furono anni vivacissimi per il Nunzio. Vivaci e stimolanti. Pur in mezzo a difficoltà d'ogni genere, la Francia, l'Europa, in qualche modo, gli offrivano il confronto della ripresa a cui il mondo si incamminava dopo il disastro della guerra. Erano anni di mutamenti profondi, dovunque; e tutto rivelava i sussulti di un mondo vecchio che muore e i gemiti di un mondo nuovo che nasce.
Nel 1948 moriva assassinato Gandhi, moriva a Neully Bernanos; in Italia era eletto presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Moriva anche un grande pensatore cristiano come Berdjaiev. Nel 1949 Mao-tse-Thung conquistava il potere e impostava le basi della nuova Cina comunista. A Budapest veniva processato il card. Mindszenty. La Francia stava sempre più chiaramente prendendo coscienza delle proprie speranze ed insieme della propria crisi profonda. In quel momento drammatico Roncalli non apparve certo, nemmeno ai francesi, come l'uomo che dopo vent'anni avrebbe riassunto in sé e nel proprio magistero le più profonde aspirazioni del mondo alla pace ed alla verità.
Pur amato e seguito dai più, egli restava soltanto un uomo giusto al posto giusto; il migliore degli uomini in un posto come tanti. Rendeva onore alla Chiesa col suo essere e col suo fare, ma nessuno poteva prevedere il futuro, nemmeno lui.
Dicendo «sono preparato a tutto quello che mi può capitare», probabilmente alludeva soltanto al pensiero della morte, così frequente nelle sue meditazioni. Solo dopo l'ingresso a Venezia deve essersi posto l'idea che poteva anche finire Papa.
Nel 1947 vedeva la luce proprio a Parigi una delle più celebri pastorali della Chiesa nel dopoguerra: Essor ou declin de l'Eglise?, del grande card. Suhard, colui al quale Roncalli aveva conservato la sede di Parigi contro le pressioni di De Gaulle e di Bidault. Era un documento a cui tutti i cattolici più sensibili si sarebbero ispirati per la «ricostruzione cristiana»; era il pensiero da cui stavano per scaturire ugualmente gli indirizzi nuovi - quelli stessi che più tardi confluiranno nel Vaticano II - ed insieme gli esperimenti più coraggiosi, come quello dei «preti operai».
Il Nunzio si domandava certo più d'una volta, a contatto del cattolicesimo francese, se quella che aveva davanti ai suoi occhi non era una delle forme più vive del pensiero cattolico. Aveva modo ogni momento, oltre tutto, di sperimentarne anche la concreta traduzione della vita religiosa e nelle iniziative di tipo sociale. Il quaresimale tenuto da Padre Riquet, per alcuni anni di seguito, in Notre Dame lo aveva profondamente colpito ed entusiasmato, e ne scriveva con parole di grande elogio agli amici italiani. Le iniziative culturali, poi, in cui la presenza dei cattolici era non di rado la più illustre e rispettata, gli davano sempre una gioia profonda.
Leone Algisi scrive: «Le forze attive del cristianesimo gli sembravano più che mai efficienti; i movimenti di pensiero annoveravano una elite di intellettuali che imponevano rispetto all'intera nazione e facevano mostra della loro fede con vigore coraggioso. Il giovedì di mezza quaresima del 1947 fu invitato al ricevimento di Claudel all'Accadémie Française. Parlò Claudel lungamente; gli rispose Mauriac. Due discorsi di ascetica cattolica e di filosofia della storia e della vita. Claudel cominciò con le stimmate di S. Francesco e finì con il richiamo alla lotta tra natura e grazia della Imitazione di Cristo. Il Nunzio non poté fare a meno di pensare che, soltanto qualche decina di anni prima" nessuno avrebbe osato pronunciare il nome di Gesù sotto quella cupola. Più significativi però di quegli spettacoli accademici erano per lui altri sintomi: non ultimo l'amore per le ricerche del pensiero. Sapeva bene che l'immensità dei lavori da compiere e l'urgenza delle riforme non impedivano alla riflessione e alla discussione di avere un loro compito importante da assolvere; in un tempo in cui i problemi si presentavano al mondo rivestiti di tanta complessità e in cui, invece, gli uomini, sotto l'assillo dell'ora, erano tentati dalle soluzioni troppo semplificatrici, il rigore del pensiero non era un ostacolo all'azione, ma la sua preziosa garanzia. Ciò non gli impediva naturalmente di biasimare la tentazione francese di prendere per profondo ciò che era semplicemente brillante e la smania scribacchina con cui talvolta si offrivano al pubblico idee vecchie, se non viete, giudicate nuove solo per mancanza di cultura. Davanti all'ingombro delle innumeri pubblicazioni che avrebbero dovuto passare almeno sotto un suo rapido esame, egli rievocava l'immagine del pergolato prima della potatura di primavera, o quella della vigna di Renzo. "Ogni abbé - diceva scherzando - non è contento se non ha fatto gemere i torchi per un suo libro"; e faceva il confronto con i preti italiani colpevoli invece di eccessiva timidezza nei riguardi del pubblico che legge».
Amava la cultura; e se una cosa gli rincresceva, stando a Parigi, era quella che le eccessive occupazioni di tipo ufficiale gl'impedissero di dedicarsi ad essa come avrebbe voluto. Sapeva bene che l'«ascesa» o il «declino» della Chiesa dipendevano, in gran parte, proprio dalla cultura.
Tuttavia non se ne ubriacò mai, nemmeno nelle intenzioni. La sua limpidezza nativa non lo difendeva soltanto dagli eccessi di tipo psicologico o morale, ma anche da quelli di tipo intellettuale. Si saprà soltanto col tempo il pieno valore della sua cultura, ora che il card. Lercaro lo ha giustamente classificato tra i «produttori» più che tra i «consumatori» di cultura.
Avremo modo, più avanti, di meditare sul fenomeno dei «preti operai» proprio in rapporto a Roncalli Nunzio e a Roncalli Papa. Ma fin d'ora è possibile dire che quanto di negativo o di ambiguo ci fu in tutto lo svolgimento dell'esperienza non fu dovuto certo a debolezza o retrività del Nunzio, né a debolezza o cattiva informazione del Papa. Si è visto proprio sul finire del Concilio che i «preti operai» hanno avuto ancora ragione, tanto da parte della Chiesa di Francia che da parte di Roma. Ed oggi è possibile, senza dare nella retorica, pensare che il nuovo esperimento - che i vescovi francesi saranno decisi certo a non far fallire - è, oggi più che mai, una conseguenza del «nuovo corso» che Papa Giovanni, più ancora del Nunzio Roncalli, ha reso possibile con le premesse culturali e pastorali che tuttavia, in otto anni di fatica e di pazienza, anche a Parigi sono andate maturando nel cuore e nel pensiero del futuro Papa.
La sua esortazione a uno studio più serio e profondo, di fronte alla necessità di tentare nuovi esperimenti pastorali in carattere con le esigenze dei tempi, resta valida a tutti gli effetti, per tutto il clero di oggi e di domani. Sono parole chiare, che pongono in guardia contro le cose troppo facili e solo in apparenza davvero nuove e davvero necessarie: «Purtroppo si ama poco lo studiare; piace molto lo sgambettare perché costa meno fatica. Niente più latino, niente più cultura classica. Liturgia accomodata da ciascuno secondo i propri gusti. Occorre certo molta longanimità e anche larghezza di criterio e di comprensione. Ma sunt certi denique fines. E quando si passa troppo la stacchetta, diceva il Porta, bisogna almeno dare un pizzico alle orecchie».
Il «pizzico alle orecchie» della cultura Roncalli qualche volta lo dette. E nel modo più discreto ed efficace.
Consegna del cappello cardinalizio

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